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Visione Argomento Storia della Mafia Cap. II
Da Nando_56
Di Giovedì 25 Ottobre 2007 00:00
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Da Nando_56
Di Giovedì 25 Ottobre 2007 13:49
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Da Nando_56
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LA STORIA DELLA MAFIA Cap. II
Origini e sviluppo del sistema mafioso
Storia e Sviluppo della mafia


  Le origini

  Il fenomeno mafioso si sviluppò nel sistema economico proprio della Sicilia occidentale, basato sullo sfruttamento del latifondo.
  Questo sistema, ancora di stampo feudale, era organizzato secondo una struttura a piramide che prevedeva un vertice costituito dal proprietario terriero, un'estesa base di contadini e braccianti che lavoravano direttamente la terra, e un centro composto da una rigogliosa e articolata gerarchia di "vassalli", affittuari e subaffittuari, intermediari ecc., che controllava l'andamento dei lavori, la quantità e la qualità dei raccolti, la riscossione di affitti e gabelle.

  Questa sorta di "classe media", già utilizzata dall'aristocrazia siciliana in funzione antiborbonica, venne usata contro la classe bracciantile e contadina allo scopo di preservare i privilegi aristocratici minacciati dalle leggi dello stato unitario tendenti a una riduzione dei latifondi.
  Sfruttando la diffusa ostilità verso un'autorità statale lontana e ignara della situazione siciliana, la mafia si trasformò, diventando un organismo sostitutivo dell'ordine legale, e intervenne nell'amministrazione della giustizia e nella gestione dell'economia, avviando una serie di attività al limite della legalità (o del tutto illegali) da cui gli affiliati e le loro famiglie traevano sostentamento.
  Da qui si sviluppò anche la struttura della mafia siciliana - simile per molti aspetti a quella della 'ndrangheta calabrese e della camorra campana, organizzata per "famiglie" (o "cosche"), autonome e parallele, composte da un numero relativamente basso di componenti e guidate da uno o più capi.

  Lo spirito mafioso poggiava su un rigido codice d'onore e sull'omertà; i conflitti, le contese, i reati andavano regolati all'interno della comunità, facendo ricorso alla mediazione, ma anche all'intimidazione e alla violenza.
  I rapporti con le autorità dello stato venivano condannati e veniva punito soprattutto, anche con la morte, il passaggio di informazioni alla giustizia.

  La mafia, seppure sotto diverso nome, compare negli atti giudiziari solo nel 1838, quando il procuratore generale di Trapani, Pietro Ulloa, parla di "unioni e fratellanze, specie di sette" dando un primo quadro agghiacciante delle complicità e delle compiacenze che consentono alla malapianta di crescere:
  "Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio…"

  Sono le "fratellanze che generano la mafia e dettano le prime norme non scritte di un'associazione formata non da "uomini d'onore" perchè di questo ancora non si discute ma da "uomini di parola", con una distinzione fin troppo sottile perchè semmai prevale qui l'assonanza fra "onore" e "parola".

  E' il tempo delle "bonànche" come venivano chiamati gli uomini con la giacca e, quindi, di "rispetto", comunque distinti da picciotti e contadini.
  Si calcola che più di ventimila picciotti seguirono Garibaldi con l'obiettivo di risalire lungo la penisola ma, quando ormai le truppe borboniche sembravano vinte, il regio esercito piemontese bloccò le camicie rosse, rispedendo a casa i volontari posti così d'un colpo davanti alla grande delusione di chi aveva sperato almeno in una vantaggiosa distribuzione delle terre.
  E invece, soppresse le corporazioni religiose con alcune leggi approvate dal 1862 al 1866, i 190 mila ettari di terreno delle proprietà ecclesiali finirono nelle mani di grossi affittuari e proprietari che se li accaparrarono a prezzi irrisori.
  Nasce così "l'opposizione mafiosa", di bande che si riorganizzano sul modello delle "fratellanze" ma scontrandosi anche con i potenti agrario - mafiosi pronti a un riassetto tutto interno al potere.
  Al centro ci sono i baroni, gli agrari insidiati nei loro interessi e altri gruppi malavitosi che infestano paesi e campagne.
  E questo lo scenario in cui l'Italia Unita registra la prima misteriosa strage, che la letteratura racconterà come la notte dei pugnalatori di Palermo con sconosciuti che, sbucando dai vicoli bui, uccisero e ferirono a colpi di pugnale bottegai, cocchieri, passanti, barcaioli e soldati, alcuni dei quali assaliti al grido: "Vuatri siti di lu partitu".

  Era il primo ottobre 1862.
  E dalla Sicilia arrivavano la prima strage e il primo pentito.
  Quella notte, infatti, per puro caso fu arrestato uno dei feritori che al processo parlò accusando i suoi mandanti.
  Ma furono i parenti del pentito a giurare sulla sua pazzia e le accuse svanirono.
  La mafia e i suoi tentacoli stesi attorno al potere cominciavano a imporsi sulla storia.


  Le origini: Cosa Nostra

  Le disperate condizioni economiche costringono molti meridionali a un esodo che coinvolge 360 mila persone nel decennio fra il 1872 e il 1882.
  La Sicilia è la più colpita dal fenomeno e partecipa più di altre regioni, soprattutto per quanto riguarda l'emigrazione in USA.
  Dalle navi si sbarca dopo faticosissime e snervanti traversate concluse con interminabili code sulle banchine per guadagnare l'ingresso in un mondo ostile dove si arriva con valigie di cartone piene di ricordi.
  La ricerca di un alloggio, un'occupazione per i nuovi arrivati passa necessariamente attraverso le conoscenze di quanti si sono già insediati nei quartieri popolati dagli emigranti.
  Si formano gruppi ristretti pronti a far scattare una solidarietà che, per certi versi, ripropone la fratellanza di vecchie sette con un richiamo all'onore e alla parola.
  Siamo ai primi embrioni di Cosa Nostra.
  C'è anche chi si inserisce nel contesto e si rafforza preparando la lotta di penetrazione per ogni traffico, dalla prostituzione alla droga, dalle estorsioni al contrabbando, pronti alla grande occasione del proibizionismo che sancirà il passaggio dalle origini rurali al gangsterismo.


  Mafia e fascismo

  Il brigantaggio e la mafia, i sequestri di persona, gli omicidi compiuti a ritmo ossessionante fanno intanto della Sicilia una terra in cui la dittatura fascista decide di avviare una feroce repressione.
  Mussolini può farlo perchè la dittatura governa senza voti.
  Ma anche lui si fermerà promuovendo e trasferendo il prefetto Cesare Mori, inviato in Sicilia nel 1924 con pieni poteri.
  I metodi di Mori sono sbrigativi ma efficaci, sicuramente discutibili, e il prefetto ripulisce città paesi e campagne.
  Assedia interi centri abitati, stana i capimafia bloccando gli acquedotti, assetando la popolazione come accadde a Gangi.
  E Mussolini nel '27 rinnova la fiducia a Mori che appena due anni dopo, viene messo a riposo con un secco telegramma, senza avviso.

  La liberazione dell'Italia dal fascismo, lo sbarco alleato in Sicilia nel luglio 1943 e l'immediata nomina di alcuni capimafia a sindaci dei loro paesi sono il frutto di un'intesa raggiunta da Cosa Nostra con le autorità americane e avviata tre anni prima con un vertice dei boss in riva al fiume Hudson, nel New Jersey.
  La notte fra il 9 e 10 luglio 1943 gli Alleati trovarono così la strada spianata e le truppe anglo-americane poterono avanzare senza esplodere un colpo anche perchè i mafiosi li precedevano scoraggiando eventuali resistenze, invitando soldati e fascisti a deporre le armi che finirono nelle loro mani.

  Il 1944 è l'anno dei separatisti.
  E la mafia che aveva servito gli americani divenne separatista appoggiando gli agrari e soffocando il banditismo a eccezione del clan di Salvatore Giuliano.
  Il primo patto in questa direzione fu sancito fra "don" Calogero Vizzini e l'ispettore generale di polizia, Messana.
  La collaborazione segreta tra forze dell'ordine e una parte della mafia, con l'uso e la protezione di confidenti e informatori, consentì la cattura di Giuliano o meglio l'omicidio del bandito con la messa in scena di un'inesistente sparatoria.
  E la mafia compì un altro "servizio": prima Giuliano fu ucciso nel sonno dal fidatissimo picciotto e cugino Gaspare Pisciotta, poi il cadavere fu ridotto dai mitra dei carabinieri a un colabrodo.
  Ma il massacro che atterrisce il Paese è quello di Portella della Ginestra, una collina a due passi da Palermo dove la banda Giuliano sparò colpi di mitraglia contro i contadini in festa per il primo maggio.


  Il dopoguerra

  Erano stati anni di imboscate e attentati.
  La Sicilia faceva paura.
  I separatisti costituivano una forza eversiva che rischiava di frantumare il disegno unitario della nuova Repubblica nata anche dalla Resistenza.
  Anche per soffocare questa spinta era stato concesso nel 1946, all'isola, uno Statuto autonomistico poi recepito dalla Costituzione italiana.
  Era tempo di elezioni e uomini di ogni partito cercavano voti dappertutto.
  Anche fra gli amici di Giuliano che si sentì poi "tradito", pronto a vendicarsi con la lupara e con le parole.
  Giuliano era diventato davvero pericoloso per il potere mentre i siciliani eleggevano la loro Assemblea Regionale che si riunì per la prima volta al Palazzo dei Normanni il 25 maggio 1947.
  Sui banchi di sinistra, Blocco del Popolo e repubblicani.
  Al centro, democristiani e separatisti.
  A destra, monarchici e liberali.
  Tutti giurarono di esercitare il mandato "al solo scopo del bene inseparabile dello Stato e della Regione siciliana".
  L'Autonomia sbriciolò l'indipendentismo e la mafia che era stata liberale con i liberali, separatista con i separatisti si avvicinava spedita al nuovo potere, insinuandosi soprattutto all'interno della Democrazia cristiana.

  Si era a meno di un mese dalla strage di Portella, "buco nero" di una storia in cui spiccano due clamorosi sviluppi legati alle parole e al destino di Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano.
  Al processo di Viterbo gridò la sua verità: "Siamo un corpo solo banditi, mafia e polizia !
  Come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo !".
  All'Ucciardone, poi, decise di rivelare ogni cosa e chiese di parlare con il procuratore della Repubblica ma si presentò un giovane sostituto, Pietro Scaglione, che ascoltò e promise di tornare qualche giorno dopo con un cancelliere per verbalizzare tutto.
  Invece qualche giorno prima arrivò la morte con un caffè alla stricnina e Pisciotta tacque.
  Cosi la strage restò senza mandanti, secondo il copione di una strategia della tensione riproposta nel dopoguerra.
  Pisciotta muore il 9 febbraio 1954 e il giorno dopo a Roma viene conferito l'incarico di formare il nuovo governo al siciliano distintosi come ministro degli Interni, Mario Scelta.
  Cinque mesi dopo, don Calò Vizzini si spegne per vecchiaia a Villalba dove un imponente corteo con capimafia e picciotti giunti da ogni parte della Sicilia si snoda fra le vie di questa capitale della mafia fino alla Chiesa Madre avvolta da un largo drappo nero e da un epitaffio a grandi caratteri:
  "Sagace, dinamico, mai stanco, diede benessere agli operai della terra e delle zolfare operando sempre il bene e si fece un nome assai apprezzato in Italia e fuori ed oggi con la pace di Cristo ricomposto nella maestà della morte da tutti gli amici, dagli stessi avversari, riceve l'attestato più bello, fu un galantuomo".

  Le complicità e le compiacenze fra mafia e potere sono spesso evidenti.
  I padrini sono talvolta riveriti e ossequiati dai potenti.
  E fra i protagonisti dello scambio non mancano nomi di prima grandezza come lo stesso Vittorio Emanuele Orlando che con una letterina ringrazia un suo capoelettore, il mafioso Francesco Coppola per un fusto di vino eccellente ricevuto in segno di devozione.
  Poca cosa, forse, ma indica un quadro di rapporti che la commissione antimafia esaminerà molti anni dopo scoprendo come, per esempio, un discepolo di Orlando, l'onorevole Gaetano Palazzolo, scrivesse a Frank Coppola in questi termini:
  "Caro don Ciccio, se ci mettiamo d'accordo per fare eleggere un deputato amico e amico degli amici, siamo sicuri di mandarcelo".

  Fonte: www.tesinamafia.it
  Da un'idea di William Olivieri
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